Tu sei Pietra

La bellezza che ci precede
Roger Caillois
con un’introduzione di Pietro Mercogliano
Fotografie di François Farges
L’artista spaccapietre
Vittorio Sgarbi
Detlef Heikamp
Fotografie di Massimo Listri

LA BELLEZZA CHE CI PRECEDE

Roger Caillois

Guardare pietre è diverso dal guardare dipinti e sculture; una pietra è quello che è, esente da errori, da cadute di gusto, da ridondanze sentimentali; di fronte a lei il critico è espropriato dei suoi poteri, disarmato. Lo storico anche: se quadri e statue sono collocabili lungo i secoli della storia umana che qualche volta, con le sue insensatezze, stanca e annoia, le forme minerali ci trasportano indietro, fuori dal tempo misurato e misurabile, nello scenario flamboyant delle cosmogonie. Vi sono pietre come profezie: vengono da prima dell’uomo e ci mostrano lo sky-line di una città; e benché, a quanto sembra, le pietre vengano anche prima degli dèi, a detta di Plinio il re Pirro possedeva un’agata in cui si vedeva Apollo con la lira circondato dalle Muse. Esposte a Roma, a Villa Medici, le pietre della collezione Roger Caillois sono un invito a sporgersi sul passato, sino a intravedere le radici lontane e i modelli latenti di una “bellezza generale” che da sempre l’uomo si sforza di imitare.

Dimmi, Anselmo: se per grazia del Cielo o del fato ti ritrovassi in legittimo possesso d’un diamante della miglior qualità, sulla cui purezza e finezza tutti i lapidarî concordassero, e tu stesso non avessi motivo di dubitarne, sarebbe ragionevole da parte tua prendere quel diamante e metterlo fra un’incudine ed un maglio per provare a forza di colpi del braccio se sia così duro e così fine come tutti dicono? E se lo facessi, e se la pietra resistesse a una prova così insensata, ciò non aggiungerebbe nulla al suo valore o al suo prestigio; e se si rompesse non sarebbe tutto perduto?” Con questa parabola, Cervantes dice qualcosa di profondo sulla natura umana ma anche sulla natura delle pietre. La prova fisica delle caratteristiche delle pietre non è importante quanto la percezione di quelle caratteristiche stesse: le pietre ci dicono alcune cose semplicemente per come ci appaiono, per come si lasciano leggere prima e al di là delle loro peculiarità meccaniche. Franco Maria Ricci, che era geologo e che ha fondato questa rivista, forse – certamente – aveva intuito che è questo che accomuna il mondo minerale a quello dell’arte. Lo aveva intuito anche Roger Caillois (1913-1978), Accademico di Francia, che leggeva le pietre. L’espressione appare ambigua, o perlomeno polisemica: si legge un libro, un alfabeto noto, un alfabeto ignoto, un messaggio, i segnali di fumo, una partitura, i tarocchi, il futuro, i segni premonitori, le espressioni e le intenzioni di una persona, le analisi di laboratorio, un diario, un’anima. Roger Caillois leggeva le pietre almeno in tutti questi sensi, e probabilmente anche in qualche altro. E le collezionava. Parte della sua collezione fu donata da Van Cleef & Arpels al Museo di Storia Naturale di Parigi. Alcuni di questi meravigliosi oggetti sono in mostra a Villa Medici a Roma dal 13 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024; Franco Maria Ricci Editore dedica loro un libro, dalle cui pagine è tratto il testo che segue.


Pietro Mercogliano
Pietro Mercogliano è il coordinatore editoriale di FMR. Ha curato le mostre Destini incrociati. Italo Calvino e Franco Maria Ricci (Labirinto della Masone di Fontanellato, autunno-inverno 2023) e Franco Maria Ricci. L’Opera al Nero (Palazzo Ducale di Genova, primavera-estate 2024).
In ogni tempo si sono cercate non solo pietre preziose, ma anche pietre strane, quelle che colpiscono per qualche anomalia di forma o per qualche significativa bizzarria di disegno o di colore. Si tratta quasi sempre di una somiglianza inattesa, improbabile e tuttavia naturale, che affascina. Le pietre sempre posseggono un non so che di solenne, di immutabile e di estremo, di imperituro o di già perito. Sono seducenti per un’intima bellezza, infallibile, immediata, che non deve nulla a nessuno. Una bellezza necessariamente perfetta, che peraltro esclude l’idea della perfezione, proprio perché non ammette approssimazioni, né errori, né eccessi. In tal senso la bellezza spontanea delle pietre precede e supera il concetto stesso di bellezza. Ne offre al tempo stesso garanzia e sostegno.

Le pietre presentano infatti qualcosa di evidentemente compiuto, tuttavia senza l’intervento di invenzione, talento, mestiere, nulla di quanto le renderebbe un’opera nel senso umano del termine, e ancor meno un’opera d’arte. L’opera viene dopo, e così l’arte, in virtù di suggestioni oscure ma irresistibili, quasi radici lontane, modelli latenti.
Sono segnali discreti, ambigui, che attraverso filtri e ostacoli di ogni sorta ricordano che deve pur esistere una bellezza generale, primigenia, più vasta di quella intuibile dall’uomo, che gioisce di essa ed è orgoglioso di produrla. Le pietre – non solo loro, ma anche radici, conchiglie, ali, ogni cifra, ogni edificio della natura – contribuiscono a dar l’idea delle proporzioni e delle leggi di questa bellezza generale, unicamente congetturabile. Rispetto a essa la bellezza umana non rappresenta che una formula tra altre. Nello stesso modo in cui i postulati di Euclide, tra gli innumerevoli possibili, non corrispondono che a un caso particolare di una geometria totale.

La bellezza comune ai diversi regni appare nelle pietre incerta, se non confusa, a un essere disperso, l’ultimo venuto sul pianeta, intelligente, attivo, ambizioso, dominato da una presunzione immensa. Egli non sospetta affatto che le sue più sottili ricerche costituiscano il prolungamento, in un dato ambito, di norme ineluttabili, sebbene suscettibili di infinite variazioni. Tuttavia, persino se trascura o disdegna, persino se ignora la bellezza generale o profonda che sin dall’origine emana dall’architettura dell’universo e da cui tutte le altre sono generate, non può impedire che s’imponga a lui mediante qualcosa di fondamentale e di indistruttibile che lo sgomenta, che suscita la sua invidia e che è ben riassunto, nella sua brutalità, dal termine minerale.

Una tale perfezione quasi minacciosa, giacché si basa sull’assenza di vita, sull’immobilità visibile della morte, traspare nelle pietre in infiniti modi diversi, per cui sarebbe possibile enumerare i tentativi e gli stili dell’arte umana senza forse scoprirne solo uno che già non avesse in loro un equivalente. Non è il caso di stupirsi: le pratiche più tortuose di questo animale fuorviato non potrebbero coprire che un infimo settore dell’estetica universale. Qualsiasi immagine l’artista concepisca, per quanto deformata, ridondante, tormentata l’abbia voluta, per quanto lontana da qualsiasi apparenza conosciuta o solo probabile gli sia riuscito condurla, chi può esser certo che nelle vaste riserve del mondo non si ritroverà una effigie che le somigli e che in qualche misura la ripeta? Simili riscontri non sono d’altronde affatto indispensabili dato che innumerevoli minerali comunemente suscitano l’ammirazione umana: cespugli aghiformi di quarzo, oscure caverne di geodi d’ametista, lastre d’agata di rodocrosite o di variscite sezionate e levigate, cristalli di fluorite, masse dorate e poligonali di piriti, semplici curve, non lavorate, appena scavate o incise, di diaspro, di malachite, di lapislazzuli, oppure una qualsiasi pietra dura dai colori vivi, dalle venature armoniose.

Gli amatori apprezzano allora le qualità di una materia omogenea: la purezza, lo splendore, il colore, il rigore della struttura: tutte proprietà inerenti alla specie e presenti in ciascuno dei suoi esemplari. Le pietre hanno valore in sé e non rimandano a nulla che sia a esse esterno. L’acquirente le paga secondo il loro peso, la loro rarità, la lavorazione utilizzata, come farebbe con un taglio di raso o di broccato, con un lingotto di metallo prezioso o con una gemma pura, e dunque intercambiabile, poiché nulla la distingue da un’altra della stessa specie, della stessa misura, della stessa limpidezza.

Tutto cambia quando entra in gioco un criterio opposto, che privilegia la singolarità della pietra agognata. Le qualità intime, la geometria specifica del minerale non sono in tal caso i centri di interesse. La loro perfetta integrità non è più l’unico e neppure il principale fattore di eccellenza. La nuova bellezza dipende assai più dalle strane alterazioni della natura del corpo per l’influsso di depositi metallici o d’altro, oppure dalla forma assunta per effetto dell’erosione o di una felice rottura. Un disegno, o un profilo insolito appare. Il sognatore si compiace di riconoscere in esso il calco imprevedibile, e dunque stupefacente, quasi scandaloso, di una realtà estranea.
Tali simulacri, da tempo immemorabile celati all'interno delle pietre, emergono quand’esse vengono spezzate e ripulite. Sembrano allora procurare all'immaginazione compiacente modelli in miniatura e immortali degli esseri e delle cose. Certo, unicamente il caso origina il prodigio. Tutte le somiglianze sono peraltro approssimative, incerte, talvolta remote, decisamente arbitrarie. Ma non appena intuite divengono subito tiranniche o offrono più di quanto avevano promesso. L'osservatore vi scopre sempre nuovi dettagli confermanti la presunta analogia. Simili immagini miniaturizzano a beneficio dell'osservatore ogni oggetto del mondo. Gliene donano un doppio immutabile, che può tenere nel cavo della mano, portare ovunque oppure chiudere entro una bacheca. Questo doppio non è una copia, non è nato dal talento di un artista né dall'abilità di un falsario. Era lì da sempre. Bisognava solo individuarne la presenza. Diverse specie minerali, ma anche semplici rocce rappresentano il bottino di questa caccia degna del dio Pan. In Cina, poeti e scrittori identificavano in una pietra perforata una montagna con le sue cime, le sue cascate, le sue grotte, i suoi sentieri, i suoi abissi. Collezionisti si sono rovinati per procurarsi cristalli nella cui trasparenza distinguevano muschi, erbe o rami con i loro fiori o con i loro frutti. Su alcune agate si può scorgere un albero, più alberi, boschetti, una foresta, un paesaggio intero; oppure su un marmo immaginare un fiume con le colline che ne bordano il corso; o i lampi e le nuvole di un uragano, i bagliori della folgore e le grandi piume della brina; oppure un eroe che affronta un drago; o un immenso mare su cui fuggono galere simili a quella che il Romano vide riflessa negli occhi di una regina d’Oriente già decisa a tradirlo.

Una particolare specie offre una città incendiata di cui crollano le torri, i campanili, i bastioni. Sull’agata di Pirro gli antichi riconobbero Apollo munito di lira e il corteggio delle Muse, ognuna con i propri specifici attributi. Gaffarel, bibliotecario di Richelieu ed elemosiniere del re, nel XVII secolo consacra un ponderoso volume ai gamahés, pietre immaginose, talismani contrassegnati da geroglifici naturali con le orbite degli astri, e in grado di guarir le malattie.
Nella stessa epoca principi e banchieri collezionano gli esemplari prodigiosi che acquistano per loro a prezzi elevatissimi i numerosi agenti dei commercianti specializzati. I dotti, tra cui Aldrovandi e Kircher, suddividono queste meraviglie in generi e in specie secondo le immagini che riescono a leggervi: mori, vescovi, gamberi oppure corsi d’acqua, volti, piante, cani o pesci, testuggini, draghi, teste da morto o crocifissi, tutto quello che un’immaginazione avida d’identificazione si è compiaciuta di riconoscere in esse. Non esiste essere, né oggetto, né mostro, né monumento, né evento, né spettacolo della natura, della storia, della favola o del sogno, la cui immagine uno sguardo sedotto non possa intuire nelle macchie, nei disegni, nei profili delle pietre. Quanto più l’immagine è insolita, precisa, incontestabile, tanto più la pietra viene apprezzata. Quelle che offrono simulacri rari e stupefacenti sono meraviglie, pressoché miracoli. Non dovrebbero esistere, eppure esistono: al tempo stesso impossibili ed evidenti. Sono autentici tesori. Originate da infinite combinazioni artificiose, sembrano il numero vincente di un’infinita lotteria. Non sono debitrici in nulla alla pazienza, all’industria, al merito. Non hanno corso legale, né prezzo. Il loro valore, che non è commerciale, non è stimabile in alcuna moneta. La pietra non si cura del valore in oro o del potere d’acquisto. Non la si può convertire in lavoro o in merce. Dipende unicamente dalla brama, dall’orgoglio, dallo spirito di rilancio che il desiderio o il piacere di possederla suscita. Ciascuna pietra, unica, irripetibile come l’opera creata dal genio, costituisce una ricchezza al tempo stesso vana e iperbolica, non soggetta in nulla alle leggi dell’economia.

Per questo sono sovente considerate amuleti e talismani. Colui che possiede una simile meraviglia, prodotta, estratta e giunta nelle sue mani per un inconcepibile insieme di casi, ama immaginare che non sarebbe potuta giungere a lui senza lo specifico intervento del destino. Si lega a essa in modo appassionato. La considera un pegno di salute e di successo. Ma poco importano le virtù magiche che la superstizione attribuisce alle pietre d’immagini. E poco importa l’ambigua esultanza che ne ricavano i loro proprietari.
In alcune tradizioni orientali può scaturire un’illuminazione dalla meraviglia procurata dalla forma o dal disegno di una radice contorta, di una roccia, di una pietra perforata o venata. Somigliano a un monte, a un abisso, a una caverna. Compendiano lo spazio, condensano la durata. Sono fonti di interminabili fantasticherie, di meditazioni, di ipnosi. Supporto all'estasi, mezzo di comunicazione con il Vero Mondo.
Il saggio le contempla, si avventura, si smarrisce, s’inabissa in loro. La leggenda vuole che non ritorni più nell'universo umano. Entrato nella dimora degli Immortali, è divenuto egli stesso immortale. Lascio al loro destino queste emozioni favolose. Mi attengo alla concorrenza che oggi le opere della natura fanno a quelle dei pittori e degli scultori, sia quando rappresentano qualcosa, sia quando offrono un segno allo stato puro, che non riproduce nulla. Alcuni artisti le hanno completate, oppure le hanno firmate e incorniciate senza apportarvi modifica di sorta, elevandole così al rango di quadri. Poiché hanno scoperto come una connivenza o una corrispondenza tra tali opere di nessuno e le loro personali creazioni.

Il confronto rischia d'esser rivelatore. Se non altro evidenzia incroci strani. Ai nostri giorni la pittura ha in un primo tempo smesso di ricercare l'esattezza nella rappresentazione dei modelli, poi ha negato ogni modello e si è ritenuta legittimata a non rappresentar nulla. Per questo i disegni delle pietre attirano oggi l'attenzione, soprattutto quelli che non raffigurano nulla. Somigliano infatti ai dipinti della nuova maniera. E tuttavia anche i più rari, quelli che sembrano rappresentar qualcosa, registrano una nuova fortuna. L'intelletto giustamente prova meraviglia nel constatare come la natura, che non può disegnare né dipingere la somiglianza, offra talvolta l'illusione di esservi riuscita, mentre l'arte, che vi si è sempre cimentata con successo, rinuncia a questa vocazione tradizionale e come inevitabile, come naturale, a vantaggio della creazione di forme mute, spontanee e prive di modello, come quelle di cui la natura è infinitamente ricca.
Un tale rovesciamento sembra dissimulare e nel contempo rivelare un problema. Al fine di chiarirne i termini - non dico di scoprirne la soluzione -, vorrei tentare di definire le vie attraverso cui la natura riesce talvolta a far credere alla sua capacità rappresentativa. Desidererei parimenti spiegare su cosa si fondi la straordinaria seduzione di simulacri notoriamente fallaci. 

La visione registrata dallo sguardo è sempre povera, incerta. L’immaginazione l’arricchisce e la completa con i tesori del ricordo, del sapere, con tutto quel che l’esperienza, la cultura e la storia lasciano alla sua discrezione, senza considerare quel che autonomamente, se necessario, essa inventa o sogna. In tal modo è sempre in grado di render ricca e dispotica persino una semiassenza.

L’immagine risultante dalla connivenza di un simile riverbero e di un’ambizione patetica entro una sostanza che non la tollera, che ben presto la riassorbe, provoca la stessa sorpresa, quasi lo stesso ammonimento di un profilo di limulo, di nepa, di formichiere o di qualsiasi animale lasciato incompiuto al crocevia della evoluzione.
Un certo giorno, l’imprudente creatore inventa (o si trova inventata in lui) una forma indubbiamente utile in quell’ora, ma ben presto, scartata, sostituita da una soluzione più semplice, più elegante. La temeraria scoperta sopravvisse a causa di un’inesplicabile negligenza delle severe potenze che solitamente eliminano le fantasie effimere, anche se durano millenni. Simili forme sopravvivono unicamente per testimoniare un errore della vita, per ricordare che la natura ha i suoi mostri, le sue deviazioni, i suoi vicoli ciechi.
Il disegno singolare di una pietra m’induce subito a divagare follemente, a inseguire, fin dentro il travaglio oscuro della pietra all’aurora del tempo, le tracce di simili aborti. I fallimenti che perpetuano divengono per me, in virtù della loro stessa bizzarria, eloquenti presagi. E se non presagi, almeno emblemi. Annunciano in un certo senso la venuta della specie corrotta presso cui, in un remoto futuro, la libertà e l’inventiva, con le disillusioni necessariamente conseguenti, prenderanno il sopravvento sui meccanismi infallibili, inevitabili, compiuti sin dall’inizio. Potenze nuove: imperfette, ma feconde.

Simili aberrazioni esercitano sull’uomo un fascino privilegiato. Gli appaiono come manifestazioni supreme di quel che ho ritenuto di poter denominare fantastico naturale. La loro innegabile, costante e misteriosa virtù di sedurre forse rivendica, per un oscuro contrappasso, il diritto alla riconoscenza che una zoologia maledetta si è preso da parte del suo ultimo, ingrato beneficiario. L’uomo ha ereditato senza saperlo un capitale di tracotanza immemorabile, di ardimenti sventurati, di scommesse rovinose, la cui persistente audacia, dapprima accumulata invano, doveva un giorno far germogliare per lui una grazia inedita e ribelle. In essa si coniugano l’esitazione, il calcolo, la scelta, la pazienza, la tenacia, la sfida. Suppongo un dio, un’intelligenza totale, panoramica nel senso pregnante del termine, in grado di cogliere in un unico spettacolo queste vicissitudini infinite e il loro inestricabile commercio. Questa ipotetica coscienza, a cui nulla sfuggirebbe, non si stupirebbe della sua esistenza; constaterebbe al contrario, senza sorpresa, una connivenza duratura, imprescrittibile, tra la serie dei fecondi aborti e il loro dedicatario universale. Le sembrerebbe inevitabile che una segreta affinità permetta all’erede di riconoscere nel groviglio disorientante quei tentativi avventurosi che sono finiti bruscamente, ma il cui stesso fallimento gli apre un cammino regale.

Venne la vita: un’umidità sofisticata, promessa di un destino inestricabile; e ricca di segrete virtù, capace di sfide, di fecondità. Un misterioso vischio precario, una misteriosa muffa di superficie, dove già si agita un fermento. Turbolenta, spasmodica, una linfa, presagio e attesa di un nuovo modo di essere, che segna la rottura con la perpetuità minerale, che osa scambiarla con l’ambiguo privilegio di fremere, di imputridire, di pullulare. Oscure distillazioni preparano i succhi, le salive, i lieviti. Come vapori o rugiade, brevi e pazienti brinate scaturiscono a gran pena e per un istante da una sostanza poc’anzi imperturbabile, farmacie di un’ora, vittime designate dall’intemperie, pronte a sciogliersi o a seccare, lasciando solo un sapore o una lordura. Nascita di ogni carne irrorata da un liquido, come la crema bianca che gonfia la bacca del vischio; come, nella crisalide, l’amalgama intermediario tra la larva e l’insetto, la gelatina indistinta e che sa solo tremolare, prima che vi si ridesti il gusto di una precisa forma, di una funzione individuale. Ben presto si aggiunge il primo addomesticamento del minerale, alcune once di calcare o di silice occorrenti a una materia fluttuante e minacciata per costruirsi una protezione o un sostegno: all’esterno, conchiglie e carapaci, vertebre all’interno, subito articolate, adattate, elaborate nei minimi dettagli. Minerali transfughi, estratti dal loro torpore, addomesticati alla vita e da lei secreti, così colpiti dalla maledizione di crescere – solo il tempo, è vero, di un rinvio subito scaduto. L’instabile dono di trasalire emigra senza sosta. Un’alchimia caparbia, usando immutabili modelli, prepara instancabilmente a una carne sempre nuova un altro asilo o un altro sostegno. Tutti i rifugi abbandonati, tutte le porose armature cadono nel corso dei secoli e dei secoli dei secoli in una pioggia interminabile di sterili semi. Cadono in un fango quasi totalmente formato da loro stessi, che indurisce e ridiviene pietra. Eccoli resi alla fissità un tempo ripudiata. Persino quando la loro forma è ancora riconoscibile, tratto dopo tratto, in quel cemento, essa è solo cifra, segno che denuncia l’effimero passaggio di una specie.

Le rose microscopiche delle diatomee, le sezioni minuscole delle radiolariti, i tagli inanellati dei coralli – come altrettanti minuti dischi ossei, dai raggi innumerevoli e sottili, cerchi di lame convergenti –, i canali paralleli delle palme, le stelle dei ricci di mare incessantemente seppelliscono nello spessore della roccia seminagioni di simboli per un’araldica senza blasoni. L’albero della vita non smette comunque di ramificarsi. Una scrittura infinita si aggiunge a quella delle pietre. Immagini di pesci che compiono evoluzioni come tra ciuffi di muschi nel cuore di dendriti di manganese. Un giglio di mare nel seno dell’ardesia oscilla sul suo stelo. Un gamberetto fantasma non può più scandagliare lo spazio con le sue lunghe antenne spezzate. Felci imprimono nel carbon fossile le loro volute e le loro trine. L’ammonite di ogni dimensione, dalla lenticchia alla ruota di mulino, impone ovunque il marchio della sua spirale cosmica. Il tronco fossile, divenuto opale e diaspro, come per un incendio immobile, si veste di scarlatto, di porpora e di violetto. L’osso dei dinosauri metamorfosa in avorio la sua tappezzeria a piccolo punto, ove a tratti luccica un tocco rosa o azzurro, color confetto.

Ogni vuoto è colmato, ogni interstizio invaso. Persino il metallo si è insinuato nelle cellule e nei canali da cui la vita è da gran tempo scomparsa. La materia insensibile e compatta ha sostituito l’altra nei suoi ultimi rifugi. Ne ha invaso le figure precise, i solchi più fini, così perfettamente da consegnare l’impronta anteriore al grande libro delle età. Il firmatario è scomparso, ogni profilo, pegno d’un miracolo diverso, rimane come un autografo immortale.


Roger Caillois
traduzione di Angelica Tizzo per Abscondita
Roger Caillois (1913-1978), è stato uno scrittore, sociologo, antropologo e critico letterario francese. Fu accademico di Francia sul soglio che era stato di Jérôme Carcopino e sul quale gli sarebbe a sua volta succeduta Marguerite Yourcenar. Docente di grammatica e studioso degli ambiti antropologici del sacro e dell’immaginario, fu anche appassionato di mineralogia e gemmologia: alla collezione di pietre da lui stesso raccolta nel corso di anni ha dedicato le righe ispirate dalle quali sono tratti i brani di queste pagine.


Tutte le pietre della collezione Caillois presentate in questo articolo sono conservate al Muséum National d’Histoire Naturelle di Parigi.
NOTE ALL’IMMAGINE
Nell’immagine che segue, da sinistra a destra, dall'alto in basso: 

Calcedonio "Larva"
Probabilmente Rio Grande do Sul, Brasile.
Seminodulo segato e lucidato, 9,5 x 1,0 cm
Dono École Van Cleef & Arpels des Arts Joailliers, 2017

Agata a losanga curvilinea
Rio Grande do Sul, Brasile.
Sezione sottile, segata e lucidata, 11 х 16 сm
Donazione Caillois, 1984-1985

Onice "Calligrafia reale"
Probabilmente Rio Grande do Sul, Brasile.
Blocco lucidato in superficie, 14 x 10 cm
Dono École Van Cleef & Arpels des Arts Joailliers, 2017

Septaria
Otzenhausen, Saar, Germania.
Seminodulo segato e lucidato, 9,6 x 9 cm
Dono École Van Cleef & Arpels des Arts Joailliers, 2017

Agata "Il fantasma"
Rio Grande do Sul, Brasile.
Sezione sottile, segata e lucidata, 19 х 23 сm
Donazione Caillois, 1984-1985

Agata ferita
Probabilmente Rio Grande do Sul, Brasile.
Sezione spessa segata e lucidata, 30 х 34 сm
Donazione Caillois, 1988

Agata poliedrica
Sítio Garguelo, Paraíba, Brasile.
Sezione sottile, segata e lucidata, 11,7 x 14,4 сm
Donazione Caillois, 1984-1985

Agata
Probabilmente Rio Grande do Sul, Brasile.
Sezione sottile, segata, lucidata, 15 x 16 cm
Donazione Caillois, 1984-1985 

Agata paesina “La vetta”
Probabilmente Chihuahua, Messico.
Modulo segato e levigato, 9 x 10 cm  
Dono École Van Cleef & Arpels des Arts Joailliers, 2017

Quarzo e calcedonio "Il mostro"
Località sconosciuta negli USA.
Seminodulo lucidato, 12,6 x 11,2 cm
Dono Ecole Van Cleef & Arpels des Arts Joailliers, 2017 

Litofisi "Scheletro mostruoso"
Origine vulcanica (?)
Probabilmente deserto di Black Rock, Nevada, USA.
Seminodulo segato e lucidato, 12 x 11 сm
Dono École Van Cleef & Arpels des Arts Joailliers, 2017

Onice "Calligrafia"
Probabilmente Rio Grande do Sul, Brasile.
Sezione sottile segata e lucidata, 14 x 12 сm
Donazione Caillois, 1984-1985

Variscite
Miniera Little Green Monster, Fairfield, Utah, USA.
Seminodulo segato e lucidato con carnallite (giallo) e cardite (bianco), 17 x 19 cm
Donazione Caillois, 1984-1985

Quarzo varietà cristallo di rocca con "occhi" di onice
Artigas, Uruguay:
Lamina segata e levigata, 23 x 25 cm
Donazione Caillois, 1984-1985

Barite "Oakstone"
Arbor Low, Derbyshire, Gran Bretagna.
Concrezione spessa, levigata su un lato, 23 x 29 cm
Donazione Caillois, 1984-1985

Calcedonio "Uccello nascente"
Agata. Probabilmente Rio Grande do Sul, Brasile.
Sezione di notevole spessore, 15 х 23 сm
Donazione Caillois, 1984-1985

Liddicoatite "La maschera" (specie della famiglia delle tormaline).
Madagascar.
Sezione spessa e lucidata, 24 x 27 сm
Donazione Caillois, 1984-1985

Calcedonio
Rio Grande do Sul, Brasile.
Seminodulo segato e lucidato, 9,2 x 9,5 cm
Dono École Van Cleef & Arpels des Arts Joailliers, 2017

L’ARTISTA SPACCAPIETRE

Vittorio Sgarbi, Detlef Heikamp

Nei dintorni di Firenze, poco lontano dai luoghi dove Calandrino era andato in cerca dell’elitropia - pietra di “gran vertù, perciò che qualunque persona la porti sopra di sé non è da alcuna altra persona veduta” - un escursionista munito di martello, Giovanni Pratesi di Figline Valdarno, si chinò qualche anno fa a raccogliere sassi che, colpiti, si aprivano mostrando il loro interno, come la polpa di un frutto meraviglioso. Oggi, ridotti in lamine, levigati e allineati in scaffali, i frutti di quelle passeggiate sul greto dell’Arno formano una collezione strabiliante. Da secoli la Toscana era conosciuta per il quasi monopolio delle pietre paesine; a quella gloria lapidea Giovanni Pratesi ha aggiunto la bellezza, segreta e svelata, delle sue pietre d’Arno. È un equivoco che la bellezza abbia preso casa a Firenze da una manciata di secoli: era già lì da milioni di anni.

Nessuno è più nobile dell'uomo che ama le pietre. È facile per molti spiriti sensibili coltivare la letteratura, studiare i dipinti, ascoltare ed eseguire le musiche più suadenti. Ma chi ama le pietre trova in esse l'anima segreta della terra. Nei palazzi veneziani del Quattrocento e del Cinquecento le strutture architettoniche in pietra d'Istria incorniciano specchi di pietra verde, rossa, arancione: sono dischi, riquadri di porfido e di serpentino, fette di colonne ricollocate a vivere in altre forme e altri corpi, in una continua transumanza da Roma, da Costantinopoli, da Aquileia, da Quarto d'Altino e forse anche da Efeso, da Corfù. Le pietre si spostano, si muovono da un edificio all'altro, da una città all'altra. Rinascono, non invecchiano e non muoiono mai. La storia dell'uomo è accompagnata dal loro movimento. Roma ritorna nel Rinascimento: le pietre sezionate, trasformate, riutilizzate, rilavorate raccontano di epoche e di storie lontane. Gli uomini se ne sono andati, le pietre restano. Così nelle diverse civiltà vengono consacrate. La Chiesa si fonda sul nome di Pietro e ovunque in Europa gli altari includono frammenti di pietre provenienti da Roma dove il mondo cristiano ha la sua origine e il suo centro. Per questo nessuna pietra è più preziosa di una pietra trovata o proveniente da Roma, nessuna è più sacra. Ma in ogni civiltà, in ogni terra, presso ogni fiume, le pietre hanno una storia e un significato arcano.

Le pietre accompagnano l'umanità in tutta la sua storia proteggendo chi le raccoglie e chi le conserva, difendendo dalle forze maligne, annunciando felicità e successo. Ogni pietra agisce con una diversa efficacia: protegge dai malanni, conserva la salute, annulla gli effetti del veleno, accompagna sulla buona rotta pellegrini e naviganti, ed è sempre preziosa anche quando è comune. I miti, i riti e le leggende, così come le ricerche scientifiche ci dicono che le pietre determinano il destino degli uomini.
Ma perché l'influenza delle pietre sia benefica occorre che la scelta sia fatta con attenzione e con giudizio. Il saper scegliere le pietre giuste è dei sapienti, dei colti, dei capaci. Nell'antichità si riteneva veramente ricco chi possedeva pietre rare e preziose. Esse, se ben scelte, hanno la potenza di dare a chi le possiede la fortuna. Fra i dotti del nostro tempo Raniero Gnoli, colto e saggio, fra Oriente e Occidente, ha raccolto e studiato tutte le pietre preziose dell'antica homa, classificate nel suo celebre Marmora romana. Pensavo che non si potesse fare di più. E invece con straordinario stupore un giorno, arrivato a Figline Valdarno, nella sacrestia del ritrovato Oratorio dello Spedale Serristori ho visto, bene ordinate in semplici vetrine, le pietre più rare e delle più varie forme, con i più mutevoli disegni, i più capricciosi ghiribizzi, bene illuminate, infinitamente diverse, talora speculari. Una grande e ricca collezione.

Ancora Marmora romana? Ancora frammenti pazientemente ritrovati in lunghe perlustrazioni? In un certo senso. Ma Roma questa volta era poco lontano da casa. Sul greto dell'Arno che passa per Figline. In una serie di escursioni metodiche e pazienti nelle oziose giornate di fine settimana, Giovanni Pratesi, pensoso e scanzonato, in abiti da campagna, andava raccogliendo pietre di varie fogge e dimensioni, intuendone, dai colori e dalle forme, i misteriosi disegni che esse conservavano nel loro cuore. Ma per conoscerle occorreva aprirle, sezionarle, tagliarle. E così il paziente raccoglitore ogni domenica tornava con una sacca piena di pietre, sapientemente selezionate, in ognuna essendo celato un imprevedibile mistero di bellezza. Non restava che scoprirlo. E così, in un laboratorio artigianale, le pietre venivano affettate in strisce sottili di forme misurate e proporzionali per essere esibite in predisposti scaffali, in una euforia continuamente mutevole e mutante.

Nella ordinata esposizione ed enumerazione, le pietre sezionate rivelano i disegni più sorprendenti in una festa di forme che muovono a stupore e ammirazione. È una collezione o una invenzione? L'impresa di Pratesi non è quella del collezionista che trova ciò che c'è o ritrova ciò che sembrava perduto; ma è piuttosto quella dell'artista che dà un aspetto nuovo alla natura e che la altera rispetto a come appare. Pratesi trasforma le pietre e le fa diventare altro da quelle che erano. In tal modo egli agisce come un artista concettuale: e non rielabora, ma scopre ciò che è e che vive nascosto, con lo stesso procedimento di chi ha montato in "mostre" le pietre ritrovate o ha ricavato, attraverso sezioni, i paesaggi segreti delle pietre paesine. Quanti anni ha una pietra e come può essere detta antica o moderna? Pratesi la inventa oggi, e la sottrae alla natura per trasfigurarla in arte creando forme che esistono, ma che prima di lui erano celate. La sua opera è un'opera di rivelazione, di svelamento. Ciò che vediamo è altro rispetto a ciò che ha raccolto. Così nasce un nuovo artista, non un collezionista, non un ricercatore, ma un creatore di nuove forme. Egli ha pazientemente raccolto pietre e ne ha trovato l'anima.


Vittorio Sgarbi
Vittorio Sgarbi, Ferrara 1952, collaboratore fin dal 1982 di FMR, è un notissimo critico e storico dell’arte, saggista, politico, personaggio televisivo e opinionista. È attualmente sottosegretario del MIC. Collezionista di opere d’arte e libri antichi, ha riunito un’eclettica collezione d’arte con la sorella Elisabetta, vincolandola tramite la Fondazione Cavallini-Sgarbi da lei creata, in vista di un possibile museo.
È avvenuto che Giovanni Pratesi, nato a Figline nel Valdarno superiore e profondamente radicato in questa terra, camminando alcuni anni fa durante l'estate lungo il greto dell'Arno, in questa stagione ridotto a un rivolo, soffermasse lo sguardo sugli innumerevoli sassi rotondi che ne tappezzavano il fondo, uniformi e coperti di un sottile film di melma che in apparenza li rendeva tutti uguali. I pochi bagnati dall'acqua, tuttavia, mostravano vene più chiare, non di rado collegate come in una rete sottile e labirintica. Alla passeggiata successiva arrivò munito di un martello, con il quale scalfire la superficie dei sassi, per portare alla luce la gamma di colori che si celavano sotto la superficie di pietra. Stava crescendo nella sua mente una nuova passione, nutrita dal piacere di scoprire che fra questi ciottoli - o fromboli come li chiamavano nel Cinquecento - si nasconde un mondo infinito di colori e immagini. A esperienza si aggiungeva esperienza, mentre si rendeva conto che, per millenni, l'acqua del fiume aveva trasportato i sassi dal loro luogo di origine anche per più di cento chilometri. Si trattava di diaspri il cui aspetto modesto nascondeva come in un involucro penitenziale i colori vivaci dell'interno, che si rivelavano alla vista al momento in cui, scheggiata la superficie, il sasso si apriva mostrando il proprio contenuto, come la polpa di un frutto meraviglioso.
Il martello diventava per Pratesi lo strumento indispensabile per scoprire le strutture interne dei sassi. Poteva anche succedere, tuttavia, che la violenza dei colpi sbriciolasse in frammenti le pietre, logorate dal gelo di tanti inverni rigorosi, e le distruggesse. Intanto in un ripostiglio venivano accumulati amorosamente sacchi pieni di campioni: Pratesi è soprattutto un collezionista. Ma ogni collezione necessita d'una struttura e d'una forma che ne esalti la bellezza e giustifichi la passione che vi è sottesa, e Pratesi si rese conto che doveva tagliare a fette i suoi sassi d'Arno e lucidarli.
I sassi tagliati più promettenti e passibili di pulitura divennero migliaia, infinite le varietà di colori e i segni strutturali, e si imponeva un criterio: Pratesi decide così di limitare la sua collezione ai sassi dell'Arno di Figline e ai suoi affluenti più prossimi. Paragonando una pietra con l'altra ci si accorge che, come in un quadro olandese del Seicento, con le varianti di questo solo colore, si possono creare gradazioni tonali ed effetti che nulla hanno da invidiare alla più variopinta palette.


Breve storia della pareidolia litica

Capitò a Pratesi, nel 2007, di recarsi al J. Paul Getty Museum di Los Angeles proprio quando era in corso una mostra di disegni di Federico Zuccari che illustrano la vita del fratello Taddeo. Si fermò colpito davanti a un foglio con la raffigurazione dell'episodio in cui Taddeo giovane raccoglie ciottoli nell'alveo di un fiumicello, infilandoli in un sacco. Stremato dalla fatica, si addormenta di un sonno visitato da immagini di architetture magnifiche, e finalmente al risveglio decide di portare i sassi alla casa paterna. Gli eventi di questa serie sono narrati da Federico Zuccari stesso: “esendo dal camino laso e dalla febre travagliato, fermatosi alla ripa di un fiume, et ancho per aspettare qualcheduno che in gropa di là lo varcase, come per riposo, si adormentò; e risvegliatosi tuto sternito dal male che egli avea, mirando alla ripa del detto fiume, gli parvero le pietre e giare di quello tutte dipinte e istoriate, simile alla faciate et opere di Polidoro, che egli aveva viste mente sua con la imaginazione che egli avea in quelle, et credendo veramente fosaro tale come gli parevano, si mise a ricore di quelle pietre, quelle che gli parvero migliore, e più belle; e riempitone una sacocia, n che portava alchune sue poche cosete e disegni, con ese carico tornato a Santo Angelo, racomando più che se stesso dette pietre alla matre, né sin a che fu guarito si ravide de l'eror suo”. Federico interpreta le visioni del fratello come allucinazioni febbrili; in realtà è sufficiente la bella dote di una fantasia vivace per apprezzare la struttura dei ciottoli. Federico non batte una strada nuova, e nel raccontare di immagini sovrapposte alle pietre, che paiono "tutte dipinte e istoriate" elabora un concetto già noto nell'antichità e proseguito poi nella letteratura artistica del Rinascimento: si tratta di un topos che riscosse infatti un enorme successo. Leon Battista Alberti, ad esempio, riprese da Plinio l'aneddoto della gemma di Pirro con Apollo e le nove muse: “la natura medesima pare si diletti di dipingere, quale veggiamo quanto nelle fessure de' marmi spesso dipinga ipocentauri e più facce di re barbate e crinite. Anzi più dicono che in una gemma di Pirro si trovò dipinto della natura tutte e nove le muse distinte con suo segno”.

Leonardo si spinge addirittura a suggerire che “se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di machie o pietre di vari misti, se avrai a inventionare qualche sito potrai li vedere diverse battaglie ed atti pronti di figure strane, arie di volti, e abiti, et infinite cose, le quali tu potrai ridure integra e in buona forma”.
È sempre Leonardo a raccontare un esperimento di Botticelli: “col solo gettare d'una sponga piena di diversi colori in un muro lasciava in esso muro una machia dove si vedeva un bel paese, egli è ben vero che in tale machia si vedono vari invenzioni dico che l'huom vole cercare in quella cioè teste d'homini, diversi animali, battaglie, scogli, mari, nuvoli, et boschi et altri simili cose”.
Erasmo da Rotterdam in un dialogo racconta di due pellegrini di ritorno da Santiago di Compostela, che durante il cammino discutono le meraviglie viste nel santuario, tra cui una famosa gemma chiamata “del buffone”. La strana definizione dipende dal fatto che in essa “si vedono sembianze di un personaggio ridicolo, così ben espresso, che nessun’arte lo può far uguale”. Uno dei pellegrini si domanda se questa immagine sia solo frutto d’immaginazione, “come se tagliamo la radice di una felce possiamo immaginarvi un’aquila. E poi che cosa non vedono i bambini nelle nuvole? Draghi che sputano fuoco, montagne che bruciano, eserciti che si scontrano”. Il compagno di viaggio, ancora tutto preso dallo stupore per la rarità appena ammirata, risponde: “Ma non vedi quanto la natura artefice giochi nell’esprimere i colori e le forme in tutte le cose?”.
Nei resti fossili inclusi nel marmo detto “lumachella”, che formano curiosi arabeschi, il grande naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi riconobbe un enigmatico viso umano e corone. Anche nella collezione Pratesi si trovano esempi in cui, nelle strutture della pietra, l’osservatore riesce a decifrare le immagini più svariate: farfalle, pesci, libellule, e infinite altre cose, secondo l’estro personale e la fantasia visiva di ciascuno.


Gerusalemme sull’Arno

Studiando per la loro bellezza le pietre di queste contrade, Pratesi si rende conto ben presto di ripercorrere idealmente le gesta dei granduchi, di inseguire le vestigia medicee. Nell’Apocalisse, San Giovanni descrive la Gerusalemme Celeste come una città splendente, tutta costruita di pietre preziose, e così anche negli intenti delle architetture cristiane le chiese e le cappelle dovevano costituire un’immagine in piccolo della Gerusalemme Celeste. Nei romanzi cavallereschi medievali, e ancora nell’Hypnerotomachia Poliphili si legge di favolose architetture, tutte in pietre preziose. La favola diventa realtà nella Cappella dei Principi, il mausoleo dei Medici presso la chiesa di San Lorenzo, concepito come un gigantesco geode. L’edificio all’esterno è di pietra forte, la bruna e sobria arenaria toscana, appena animata in questo caso da membrature di marmo bianco, ma entrando si viene come catapultati in una dimensione sovrannaturale. Il visitatore è sopraffatto dal fasto, dalla meraviglia delle pareti tutte di pietre dure colorate.

La Cappella era costata un’enormità, sia per il tempo impiegato a completarla sia per la difficoltà di procurare una tale quantità e varietà di pietre dure: Ferdinando I ne aveva fatto un’impresa globale, un gesto di brama imperiale che investì tutto il mondo allora conosciuto. Le pietre infatti vennero fatte venire, oltre che dalla Toscana, e dalla Corsica, anche dall’India e dall’America. Nei bagni penali dei Turchi a Livorno vennero fatte segare in sottili lastre, che poi passavano nelle botteghe della Galleria degli Uffizi, pronte per il lavoro di commesso. Segare le pietre era un lavoro durissimo: la polvere creatasi entrava nei polmoni dei prigionieri, abbreviandone la grama esistenza già provata dalle condizioni dure della loro reclusione. Oggi invece, le seghe elettriche d’acciaio temperato, dotate di diamanti industriali, hanno pressoché eliminato quello che un tempo era davvero un problema. Per questo nei piani delle cucine, nei bagni o sui banconi dei bar, nei pavimenti degli atri d’ingresso e nelle specchiature dei muri dei negozi possiamo vedere graniti della Finlandia, dell’India e del Labrador, o marmi del Portogallo, pietre che avrebbero fatto impazzire non solo i Medici, ma anche gli imperatori romani. Pietre per le quali, fino a qualche tempo fa, ci si sarebbe scontrati con quasi inimmaginabili difficoltà tecniche di lavorazione. Oggi il turista visita il complesso soprattutto per la Sagrestia nuova di Michelangelo, dedicando solamente uno sguardo fugace alla Cappella dei Principi, considerata una curiosità e un fenomeno di esibizionismo principesco. Per i Medici, la principale attrazione nella loro cappella era costituita dal fasto delle pietre dure – quelle a cui avevano dedicato tanta attenzione nelle loro manifatture – con i loro colori intensi esaltati dalla superficie brillante. Ma a cavallo tra Cinque e Seicento si impara ad apprezzare anche una pietra di aspetto più modesto, e tuttavia di bizzarria quasi unica: la pietra paesina.

In questo umile sasso, tipicamente toscano, il ferro e il manganese disegnano nel calcare e nell’argilla immagini di inquietante realismo, moltiplicando le associazioni visive. Spesso sembra che la struttura della pietra ripeta in piccolo le grandi catastrofi geologiche della Terra, terremoti, distruzioni apocalittiche, tempeste, profili di città dai tetti aguzzi e dai campanili svettanti, porti gremiti di navi dalle vele stracciate dal vento. Questo toscanissimo fenomeno litologico è in grado di evocare i paesaggi più remoti ed esotici: l’osservatore moderno può immaginare lo skyline di New York, ma anche le metropoli cinesi, valli rupestri e grotte.
I pittori usavano le lastre di paesina come sfondo per dipingere le scene bibliche più drammatiche, come Sodoma e Gomorra, o Sansone che distrugge il Tempio, oppure vi ambientavano ardenti Tebaidi, con gli anacoreti nascosti in montagne minacciose. Le linee della pietra guidavano la fantasia degli artisti nell’inserire le figure di eremiti in questo tumulto immaginato della natura. Oltre alle pietre dalle forme scheggiate e aspre, oltre agli spigoli taglienti come lame da coltello, si trova un altro calcare, il cosiddetto “rigato”, con linee a curve sinuose, che si può interpretare come le onde pacifiche di un mare calmo, utilizzato dagli artisti per raffigurare marine. Un altro caso di mimetismo è quello offerto dal “verde d’Arno”, che si adoperava per i piani di tavolo di pietre dure per rappresentare il fogliame delle piante. Erano queste le poche pietre tenere accettate nelle botteghe di corte dei Medici. Non è un caso che proprio a Firenze un frate di Santa Maria Novella, Agostino del Riccio, scriva a cavallo tra Cinque e Seicento un trattato sulla “Storia delle pietre”. Non era un uomo di lettere, era un po’ ingenuo e troppo loquace. Ciononostante, il del Riccio riesce a captare perfettamente la voga del momento e a rendere una perfetta immagine della passione fiorentina, e medicea, per questi materiali. Amico degli artigiani e degli artisti attivi nel settore – tra gli altri, anche Buontalenti e Jacopo Ligozzi – frequenta le botteghe di corte dove vede nascere le opere in commesso, dove si creano i vasi di cristallo di rocca, diaspro e lapislazzuli. Conosce i luoghi dove in Toscana si trovavano le pietre dure, ha una perfetta cultura da marmista e domina la poetica nomenclatura di questi materiali.

Il mestiere fiorentino del commesso in pietre dure si estese poi a Napoli, a Kassel in Germania, e a Madrid, ma nella patria d’origine ha sopravvissuto i secoli e trovato una nuova, vivace fioritura durante il governo lorenese e in tutto l’Ottocento. Il vorace mercato del turismo fa sì che questa tecnica raffinata si mantenga ancora in vita, anche se ancorato ai modelli antichi – fiori, frutta, animali, motivi geometrici.
Invece di cercare nuove fonti di ispirazione, sono questi i soggetti preferiti, cui si aggiungono le imitazioni dei paesaggi dei Macchiaioli, e paradossalmente, le sciolte pennellate di questi artisti vengono riprodotte fedelmente nell'ostile durezza del minerale. Il commesso, ancora mirabile per le capacità tecniche ad esso sottese, sembrava essersi irrigidito in formule steri, in una noiosa retrospettiva, in un ormai inutile déjà vu.


Come un paesaggio dell'anima

Ma Pratesi ha aperto una nuova strada figurativa, e aprendo le pietre d'Arno come pagine di un libro illustrato ha scoperto una ricchezza d'immagini della quale nessuno fino ad allora si era reso conto. Una breccia "frutticolosa" può reggere il paragone con le più celebrate e belle brecce egiziane apprezzate dagli imperatori romani; l'Arno tiene in serbo tante sorprese: vi si nascondono i frottages di Max Ernst, i drippings di Jackson Pollock, la texturologie di Jean Dubuffet. Vi sono sassi che, una volta tagliati, sembrano muschi e licheni o preparati anatomici di organi umani, in una mimesi così riuscita che non li si può osservare senza un brivido di sorpresa o di ammirato raccapriccio: la materia inorganica si serve dello stesso linguaggio di quella viva, e negli armadi grigio chiaro, di sapore neoclassico, della Fondazione Pratesi queste espressioni di Madre Natura sono allineate a centinaia. Quando si piantano fiori in un'aiuola, anche combinazioni di colori stridenti riescono come per miracolo ad armonizzare tra loro, mentre su un tessile creato dall'uomo risulterebbero insopportabili alla vista. Le pietre, anche quelle più contrastanti fra loro, si comportano seguendo lo stesso principio dei fiori. Per enfatizzare la bellezza di alcune di queste, Pratesi le ha inserite in un passe-partout costituito da un'altra pietra, di grana e colore più uniforme, e l'effetto della lastra al centro aumenta magicamente in preziosità e potere decorativo, i disegni della struttura emergono con evidenza prima insospettata. Nella Fondazione, questi quadri rettangolari sono incorniciati e allineati come fregi sopra i mobili. Dobbiamo considerarli come un passo efficace verso il rinnovamento dell’arte del commesso.

I sassi pratesiani aprono gli occhi dell’osservatore su tanti aspetti finora non apprezzati del mondo naturale che ci circonda. Visitando questo museo si sente risvegliare l’aspetto poetico della Wunderkammer, lo stupore per le meraviglie arcane del creato. Ma la collezione è anche l’orgogliosa affermazione delle proprie radici, di un’area densa di storia, di valori, di bellezze naturali. Allo stesso tempo è la raccolta più completa delle pietre toscane di una zona circoscritta. Anche lo studioso contemporaneo, che ha familiarità con i novemila campioni messi insieme da Giovanni Targioni Tozzetti (1712-1783), immergendosi fra le pietre pratesiane farà delle scoperte sorprendenti.
Così è il museo di Pratesi, come un paesaggio dell’anima e come il manifesto della personalità del suo ideatore: visitando questa raccolta si rivela a noi non solamente la fanfara dei colori forti delle pietre ma anche l’aspetto poetico di certe sfumature sottili che non si palesano a prima vista: una guida alle meraviglie della natura nei suoi vari aspetti.


Detlef Heikamp
Detlef Heikamp, Brema 1927, storico dell’arte e grande conoscitore del collezionismo mediceo, ha insegnato a Firenze, Norimberga, Cambridge (Ma), Würzburg, Berlino. È socio emerito dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze ed è stato Associate Scholar presso il Kunsthistorisches Institut della stessa città. È socio fondatore dell’Associazione “Amici degli Uffizi”. Nell’estate 2007 Scholar al J.P. Getty Museum, Heikamp riceve nel 2013 il Premio Internazionale “Professor Luigi Tartufari” dall’Accademia dei Lincei di Roma e il Fiorino d’oro dalla città di Firenze nel 2017.
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