
Casa... casa...
CASA... CASA...
Matteo FochessatiLo chiamavano “male svizzero”; lontani dai cantoni, gli elvetici cadevano in prostrazioni profonde; a provocarle era soprattutto il ricordo del Ranz des vaches, il richiamo che al crepuscolo i mandriani rivolgevano alle vacche perché tornassero nelle stalle. A Basilea, nel 1688, il medico Johannes Hofera aveva isolato la sindrome e l’aveva chiamata con una parola inventata: “nostalgia”; ma presto ci si accorse che non si trattava tanto di una patologia quanto di un sentimento universale. L’aveva provato Ulisse che, preferendo Itaca all’amore di una dea (Calipso), si ritirava a piangere sulla riva del “mare infecondo” e l’aveva provato Dante (“Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core / lo dì ch’àn detto ai dolci amici addio”); da lì a qualche secolo l’avrebbe provata ET che nel film di Spielberg geme: “Casa… casa…”. Passando dal linguaggio clinico a quello comune la parola nostalgia si caricò di aura, echi, suggestioni.