
La luce e la trama della memoria
LA LUCE E LA TRAMA DELLA MEMORIA
Orhan Pamuk
Le opere della fotografa indiana Dayanita Singh (1961) superano ampiamente il mezzo e veicolano un messaggio che è ben più della somma delle singole componenti. L’omaggio che qui le offre il premio Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk rivela un’affinità che è inequivocabile: entrambi sono artisti che operano apparentemente con un medium (le foto, la scrittura), ma trafficano con i contenuti in maniera di molto superiore alle sole apparenze. E le scatole, le teche, i sistemi di conservazione si fanno essi stessi “contenuto” dell’opera d’arte concettuale. Siamo alle prese con due campioni dell’arte post-moderna che contengono tutta la lezione del miglior Novecento. Ma c’è di più. Si capisce che Dayanita Singh abbia più volte detto di sentirsi una “book artist”. Le sue fotografie, infatti, non parlano mai solo per sé stesse, ma acquistano valore, forza, narrazione ed emozione quando stanno in un insieme. Lavora per accumulo: e la fotografia è, come si diceva, solo il materiale primo con il quale fare crescere il progetto artistico che di volta in volta realizza. Nella recente mostra al Gropius Bau di Berlino, la dimensione libresca e meta-libresca dei suoi progetti è evidente. Sequenze di foto in successione, in sontuosi leporelli, in teche, o racchiuse in edizioni curatissime, onnipresente il legno di teak, da lei scelto come segno distintivo. Ma ciò che ha reso celebre Dayanita Singh – e che non poteva non attirare l’attenzione di Pamuk – sono i suoi “musei”. Architetture eleganti, nelle quali le foto trovano un supporto che è già di per sé opera e che servono a dare, a colpo d’occhio, la forte valenza unitaria del progetto.
Così ogni sua mostra è antologia e archivio del suo lavoro; e archivio è parola fondamentale: non è la foto, ma l’incessante atto di fotografare e catalogare, che la distingue. Poi, è chiaro, le sue foto sono sempre eccellenti, e non a caso Dayanita Singh ha appena vinto il prestigioso Premio Hasselblad. I suoi progetti più noti e significativi, da I am as I am a Let’s See, fino ai musei portatili di cui sopra, come Museum of Dance e Museum of Shedding, davvero costituiscono una potente e vibrante riflessione sul suo modo e sul suo mondo (cioè sul nostro), indipendentemente dal soggetto prescelto. Ma è un progetto come Box 507 (edito in 360 copie dalla sua private press Spontaneous Books) che emoziona più di ogni altro: perché il compratore dell’opera è esso stesso parte in causa dell’opera, e la cambia, in un circolo virtuoso, reale e tangibile, nel quale l’artista ci prende per mano e ci invita a danzare con lei. Proprio come lei fa con la sua macchina fotografica.
Stefano Salis